di Mauro Mirci*
Ho vissuto altre emergenze, ma sono state emergenze diverse. Spesso sono state emergenze di fuoco. Vampe che volano alte nel cielo. Alberi che divampano in pochi istanti, e il crepitio assordante del legno che si disintegra e trasforma in cenere e fumo. Di giorno tutto si oscura, le nubi nere di fumo si allargano in alto e incombono su di te, che con la tua maglietta blu con il tricolore sei lì a tentare qualcosa per combattere il mostro di fuoco che si mangia i boschi, che si mangia i seminativi, che circonda i villini e fa fuggire la gente da dentro. Oppure si tappa in casa, per sfuggire al fumo pesante, asfissiante, di un odore tanto grave da sembrare solido. E tanto si oscura il cielo di giorno, tanto si rischiara di notte. Ogni albero che brucia sembra una supernova e tu ti senti indifeso, inutile. Vorresti gettarti in avanti, combattere le fiamme in qualche modo. Osservi i vigili del fuoco e le squadre dell’antincendio forestale che sparano ettolitri di acqua con le manichette, con i cannoni montati sulle autocisterne. E di giorno lo bombardano con gli aerei, il fuoco, con gli elicotteri. È una guerra. Il nemico è perfido e tremendo. I nostri hanno le divise, anche io ne indosso una. Contro il nemico si spara, lo si bombarda. C’è una linea del fronte ma non c’è una terra di nessuno, perché il nemico non puoi ucciderlo e avanza senza timore della tua reazione.
Il nemico puoi solo fermarlo se.
Se il vento non gli è favorevole, se la temperatura scende, se la vegetazione è rada, se hai abbastanza acqua, abbastanza uomini, abbastanza energia da resistere fino a che lui non sarà abbastanza addomesticato da desistere. O sazio tanto da non volersi più mangiare fette di bosco e fondi agricoli.
Lo vedi, il nemico. O lo percepisci. comunque. C’è il fumo, ci sono le fiamme, c’è la fatica, c’è la disidratazione. E i sensi di colpa per non avere anche tu un naspo per le mani, o un flabello, una pala, qualunque attrezzo per dare addosso al fuoco. Perché sei un funzionario, un tecnico che, attraverso i percorsi strani e imprevedibili della burocrazia comunale, s’è trovato a fare questo mestiere strano, dove al consueto lavoro da scrivania si inframmezzano momenti di affanno e concitazione. E allora i fascicoli, i protocolli, le delibere diventano qualcosa di poco importante e la priorità diventa telefonare al sindaco, ai volontari, ai colleghi dell’ufficio tecnico, ai poliziotti municipali, fare monitoraggio, pianificazione, passarsi informazioni, raccomandarsi linee d’azione, spostare personale e mezzi da una parte all’altra del territorio, intuire un attimo prima del fronte di fuoco dove questo si dirigerà e inventarsi qualcosa per proteggere l’ospedale o l’agriturismo. Lo sai che l’incendio d’interfaccia si combatte così, che stai lì per quello. Ma di sentirti in colpa non puoi evitarlo lo stesso.
Oppure c’è il fango. Finisce la stagione del fuoco e inizia quella delle piogge. Spesso il fango è causato dal fuoco. Boschi rasi al suolo dalle fiamme, canaloni spogli e incisi a fondo dalle acque piovane, ormai non frenate o ostacolate da una decorosa copertura vegetale. Lo sai: a settembre, con le prime piogge, si alzano i livelli di rischio. Consulti il bollettino del dipartimento regionale della protezione civile e speri che le segnalazioni di rischio che leggi sia, come spesso capita, solo virtuale. Ma ogni tanto è reale e tangibile. Il cielo si oscura di colpo e viene giù il diluvio. Preghi che i terreni reagiscano con ragionevolezza, che l’acqua defluisca beneducata a valle, che i torrenti s’ingrossino quel tanto e non di più. Quando non succede, inizi a sentire le sirene dei vigili del fuoco. E dai il via alla consueta routine dell’emergenza: telefonate, spostamenti di mezzi e personale, chiamate al sindaco, tutto come sopra.
Il nemico, in questo caso, è ancora più infido e ha vita facile contro gente che ha perduto la memoria del suo territorio. Magari abiti su un vecchio accumulo di frana e non lo sai. Oppure a valle di una discarica di materiali di riporto e rifiuti vecchia di secoli. Hai sentito parlare di dissesto idrogeologico in tv e non ci hai fatto caso. Nemmeno lo sai cosa fa un geologo. Ma il Fato non tiene conto di queste attenuanti, e il dissesto idrogeologico ti piomba in casa sotto forma di una frana di modeste dimensioni che sfonda la parete del soggiorno e ti salvi solo perché eri al piano di sopra.
Ecco, di eventi come questi non riesci a dimenticarti. Arrivi sul posto e riesci a gioire perché vedi il personale del 118 con le braccia conserte. E i miracolati per strada. Scalzi, piangenti, vocianti. Vivi.
Anche in questo caso ti senti in colpa. Vorresti non pensare. Vorresti avere una zappa e spostare tutto quel fango. O rimuovere i massi dalla carreggiata. Vorresti metterti a vociare anche tu come i miracolati, urlare contro la malasorte, contro il governo, contro il sindaco, contro chi dovrebbe fare e non fa. Regredire allo stato bestiale e grugnire e bestemmiare. Tutto, ma non pensare.
Ma hai la casacchina blu col tricolore. Ti tocca fare la faccia di chi ne ha viste ben altre, di quello che sa cosa fare e come farlo. Raccomandi: niente panico. Chiedi: ditemi come state, se avete un posto dove dormire questa notte. Ti informi delle loro necessità immediate e ti sforzi di trasmettere serenità e presenza a sé stessi. Perché è giusto così, te lo hanno insegnato che si fa così. Vicinanza ma calma e serenità. Empatia e distacco.
Un ossimoro.
La costante comune è il rumore. Ogni volta decibel a livello altissimo. Suoni del fuoco, delle sirene, dei soccorritori. Richiami, bestemmie, ordini, gracchiare delle radio.
Ma oggi è un’emergenza del silenzio. Ogni tanto il passaggio di un’automobile. Oppure la mia stessa voce, distorta dagli altoparlanti, che raccomanda di non uscire di casa, di stare calmi, di non fare incetta di roba nei supermercati. “Focu friddu”, fuoco freddo, diceva mia madre quando voleva significare un evento terribile ma sotterraneo. Come quello attuale.
Il nemico, questa volta, è invisibile, silenzioso, volatile. Viaggia con il minimo soffio d’aria, si nasconde sugli oggetti di sempre. Si annida sulla tua stessa pelle. Non sono più il fumo, il fuoco o una tonnellata di fango che possono ucciderti. Sono i gesti usuali, il saluto a un amico, il vicino di scrivania che parla senza mascherina, la signora con la borsa della spesa in coda assieme a te al supermercato. Per salvarsi non è sufficiente allontanarsi dalla zona di rischio. Le mappe, le aree rosse, sono inutili.
Un virus, una cosina grande, al massimo, 300 nanometri. Un nanometro equivale a un miliardesimo di metro. Per capirci, se dividiamo un metro per mille otterremo millimetro. Ecco, adesso prendiamo quel millimetro e dividiamolo per mille. Ancora troppo grande. Prendiamo questa millesima parte di un millimetro e dividiamola per mille. Quello è un nanometro. Prendetene 300 e avrete l’idea delle dimensioni di un virus. Invisibile anche al microscopio. Occorre quello elettronico per vederlo, e solo con particolari accorgimenti.
Quindi creiamo la nostra personale difesa. Ce ne stiamo ognuno all’interno di un’ideale sfera di almeno un metro di raggio. Timorosi del respiro altrui, o dell’altrui superficialità. Se sei costretto fuori di casa cerchi di non pensare al rischio. Metti la tua mascherina di panno, calzi i guanti, e lavori. Ignorare il rischio è irragionevole. Eviti contatti stretti, apri finestre, tieni a distanza gli altri, cospargi mani e oggetti con quantità esagerate di disinfettante. Lo sai che qualcosa ti sfuggirà sempre. La tastiera del computer. Chi l’ha utilizzata oltre me? E il volante dell’auto di servizio? E il sedile? Gli abiti? Rischio di portarmi il virus in camera da letto quando mi spoglio per andare a dormire?
Poi arriva momento in cui ti rendi conto che puoi affidarti solo a gesti automatici, a rituali d’igiene ormai interiorizzati. Alla buona sorte. Semplicemente, è meglio non starci a pensare, altrimenti vince la paura. La paura è un ottimo amico: ti tiene sempre sul chi vive, ti suggerisce attenzione e prudenza. Purché non superi la soglia dell’utilità. Allora paralizza ogni pensiero e ogni azione.
Lo hai fatto diventare il tuo esercizio quotidiano: gestire la paura e assumerne la dose necessaria, non di più, portare avanti il tuo lavoro sforzandoti di fingere massima serenità, giusta misura, adeguata applicazione, alta attenzione, necessario ottimismo.
Immerso nel silenzio della città intorno a te.
Sono stato immerso in una simile cappa di silenzio nel giugno del 2009, a Onna. Attorno a me, e ad altri con la casacchina blu, rovine di vecchi cascinali, un vigile del fuoco costernato, un’insegna stradale sopravvissuta al terremoto, un deposito di auto estratte dalle rovine dei rispettivi garage. Ma era un silenzio dovuto all’inutilità del rumore. Quaranta corpi erano già stati estratti dalle rovine mesi prima e sepolti. E le murature pericolanti erano state abbattute. E le macerie da spostare erano state spostate. Non c’era necessità di fare altro. Solo il vigile del fuoco costernato se ne stava accanto a un cumulo di rovine, con le mani sui fianchi e la testa bassa, come a riflettere sul da farsi senza che gli venisse nulla in mente.
Focu friddu. Uffici silenziosi, piazze deserte, passanti solitari dai volti nascosti. Ogni tanto rabbia. È la paura il segno distintivo di questi gorni. Continua e sotterranea. Onnipresente. A dispetto dei flash mob, degli inni nazionali dei richiami alla responsabilità e alla razionalità. Siamo animali sociali evoluti, ma pur sempre animali. La paura fa parte del nostro DNA, la razionalità è solo un’appendice aggiunta dopo. La struttura, però, è sempre la stessa: temiamo il fuoco, l’ignoto, l’imprevedibile, l’incomprensibile, l’invisibile.
Mauro Mirci, autore prolifico e dalle mille sfaccettature, per Nulla die ha pubblicato il romanzo Chi non sogna un futuro radioso? e il libro di racconti L’impavida eroina eccetera.